C’è un sinistro ed inquietante filo rosso che lega tutta la musica leggera dai primi anni dello scorso secolo ad oggi, una macabra sincronicità che accomuna Kurt Cobain a Jim Morrison, Janis Joplin a Amy Winehouse. Stili diversi, sound diversi, epoche diverse, ma la stessa tragica età in cui morire: 27 anni. E’ la maledizione del “Club 27”, termine giornalistico nato dopo una serie di morti celebri (susseguitesi in meno di due anni) per indicare quel gruppo di artisti deceduti tutti alla stessa giovane età dopo aver comunque fatto la storia della musica.
Era l’estate del 1969 quando Brian Jones, fondatore dei Rolling Stones e da poco allontanato dalla band a causa della sua vita sempre più sbandata, fu trovato morto sul fondo della piscina nella sua villa del Sussex. Il medico coroner, pur evidenziando lo stato totalmente compromesso del fegato e del cuore, scrisse sul rapporto che si trattava di una “morte per incidente”, anche se la ragazza di Jones continuerà per anni a parlare di omicidio. Passarono poi pochi mesi per un’altra morte eccellente di uno splendido ventisettenne: siamo nel 1970 e il più grande chitarrista di tutti i tempi, Jimi Hendrix, mentre era a Londra nel suo appartamento di Lansdowne Crescent, decise di assumere un cocktail letale di alcool e tranquillanti che lo portò alla morte, soffocato dal suo stesso vomito. Una manciata di giorni e anche Janis Joplin veniva ritrovata riversa tra il comodino ed il letto, deceduta per un’overdose di eroina, probabilmente tagliata male. Quando poi, neanche un anno dopo, il leader dei The Doors Jim Morrison moriva per un attacco cardiaco nella vasca da bagno della sua casa di Parigi, (dopo aver sniffato eroina invece che cocaina, come Uma Thurman in Pulp Fiction) la maledizione dei rocker e del ventisettesimo anno era ormai sulla bocca di tutti. Alcuni risvolti misteriosi di tali morti poi diedero adito a voci su possibili complotti ed omicidi, con la CIA nella parte del carnefice per silenziare quelle voci del rock che potessero influenzare male la gioventù statunitense dell’epoca.
La leggenda del “Club 27” ritornò d’attualità quando Kurt Cobain, simbolo della generazione X e dei primi anni ’90, leader dei Nirvana e capitano del grunge in generale, stanco e inadatto alle pressioni di una vita da rockstar, decise di prendere un fucile a pompa e di spararsi in bocca nel garage della sua casa sul Lago Washington, dopo aver lasciato una toccante lettera d’addio alla figlia Francis e alla moglie Courtney Love (che avrebbe perso da lì a pochi mesi anche la bassista del suo gruppo Hole, Kristen Pfaff, morta anche lei a 27 anni per overdose da eroina). Ed oltre alle star più celebri ci sono molti altri membri in questo inquietante club, che comprende anche artisti meno noti (Jacob Miller, Dave Alexander, Alan Wilson e molti altri) o meno recenti (come Robert Johnson, di cui si diceva avesse venduto l’anima al diavolo per aver successo con la sua chitarra, morto nel 1938 naturalmente a 27 anni), fino ad arrivare all’ultimo grande personaggio deceduto a questa età maledetta: Amy Winehouse, morta nel 2011 in circostanze mai del tutto chiarite (le indagini hanno portato a pensare ad una commistione tra abuso d’alcool e disordini alimentari). E anche se uno studio ci indica che in realtà l’età più comune per la morte di un musicista siano i 55 anni (complimenti per lo studio tra l’altro…). L’iconicità di queste morti giovani ha lasciato un segno indelebile nella musica e in generale nella cultura dell’ultimo secolo.
Perché, come scrisse proprio Kurt Cobain nella sua lettera di commiato (citando una canzone di Neil Young): “It’s better to burn out than to fade away”, è meglio bruciare in fretta che spegnersi lentamente. Il manifesto di una vita rock, e dello stesso Club 27.
Articolo di Adalberto Piccolo.