La fine di un festival, i luoghi che si svuotano e si smontano lasciano sempre un senso di desolazione, un po’ di nostalgia. E allora forse non è un caso che tra i film che chiudono il Torino Film Festival ce ne sia più di uno che affronta il tema della solitudine e della disperazione soprattutto nel confronto con la natura. Una tendenza che parte fin dallo scorso anno, quando il pubblico fu incantato dal bellissimo All Is Lost di J. C. Chandor, e che nel festival numero 32 ha trovato un’ottima sponda persino nella retrospettiva sulla New Hollywood, con La ballata di Cable Hogue di Sam Peckinpah. Sancisce il filone la presenza di due film posti in chiusura di manifestazione: Wild di Jean-Marc Vallée e Jauja di Lisandro Alonso, accomunati anche dalla presenza di attori importanti come, rispettivamente, Reese Whiterspoon e Viggo Mortensen.
Il primo, diretto da Jean-Marc Vallé si immette nella tradizione americana dell’uomo solo contro la natura, che ha dato vita a capolavori come Into the Wild: anche qui, la protagonista decide di attraversare tutto il Pacific Crest Trail, sentiero di 4286 km che attraverso tutti gli Stati Uniti dal confine con il Messico a quello con il Canada, per ritrovarsi e sopravvivere a se stessa e alla propria depressione: l’assunto denuncia subito però la natura del film che non trasfigura nulla, non racconta né celebra nessun mito americano, racconta in modo convenzionale e consolatorio una storia che senza sponde metaforiche o mitiche diventa del tutto incomprensibile. Errore in cui non cade Lisonso: il suo film, girato in 4:3 e pregno di echi al cinema stilizzato e rarefatto di Ruiz e Rohmer, Jauja reinventa una mitologia western spostandola di un paio di secoli indietro e portando il rapporto tra l’uomo solitario e la natura dentro un cinema simbolico e avventuroso, misterioso eppure umano, che riflette sulla storia e sul fascino dei luoghi come legami nel tempo. In questo modo, la solitudine del personaggio diventa per lo spettatore materia di fascino e stimolo, quando invece, i flashback, le parole usate come riempitivo, paiono una carezza consolatorio per impedire i capricci di chi guarda.