Stanotte celebreremo.
Brinderemo alle nostre perdite, mentre l’ultima speranza scende abbandonata, sfregiando il tuo mascara.
E la bellezza greve suonerà l’anestesia, mentre l’ultima speranza brucerà patetica oltre le mie palpebre.
E celebreremo il crepuscolo, le persone che potevamo diventare.
Violentandole ancora, e ancora, e ancora, fino a consumarci l’anima.
Alzeremo i bicchieri ai giganti che eravamo, e ci stringeremo incapaci d’immaginare l’alba. Qualsiasi.
(Salta una canzone su calde folate d’aria che si schiantano, immacolate, nel freddo limato.)
E’ questa la verità? E’ questo il nostro limite?
E pregheremo per un dolore.
Pregheremo la prima anima che cadrà, mentre abbandonati su vecchi sofà vediamo il mondo scorrere, come un oceano spaventato dalla propria infinitezza, incapace di prendersi.
E ci domanderemo cosa abbiamo perso, coprendoci con palmi sporchi in cerca di un vuoto.
E ci domanderemo se ci siamo fatti sentire, o se rimaniamo l’eco perso di una seriale nostalgia; se sono nostri i pensieri.
E ci domanderemo del nostro amore. E ci stringeremo, perché è il solo modo per dimenticarci della rovina che infuria
Ci chiuderemo gli occhi a vicenda. Bacerò il tuo mascara. Bacerai le mie palpebre. Un confine inviolabile.
E saremo un nome. Non sogneremo che noi, fino al prossimo incubo.
E non potremo che farci male, meravigliosamente, ostinati.
Chiedendoci se il bene, alla fine,
sia mai servito per sopravvivere. A qualcosa.
Perché tristi sono le canzoni che serbiamo nei nascondigli sospesi
tra le notti.
E qui si fermano i nostri passi, le nostre catene, la foga di sfiorarci a vicenda,
per comprendere quel suono signore d’ogni silenzio.
Stanotte danzeremo.
E il sole non ci troverà.
Non ancora.