Vivere aiuta a morire: l’opera prima di Valeria Golino dalle sale italiane alla Croisette
Basterebbe la sinossi dell’esordio nel lungometraggio di Valeria Golino per rendersi conto di che tipo di patata bollente sia transitata per le sue mani prima che la stessa approdasse nelle sale nostrane a partire dalla scorsa “festa” dei lavoratori, per poi sbarcare sulla Croisette nella sezione Un Certain Regard del Festival di Cannes 2013. Insomma, quanto basta per farsi un’idea, seppur sommaria e generica, sul grado di difficoltà e pericolosità al quale si è sottoposta, legata soprattutto a un tema che è stato e continua ancora ad essere un vero e proprio tabù. Scegliere di parlare in Italia di suicidio assistito è di per sé impresa ardua, figuriamoci al cinema e in una nazione che produttivamente parlando ha solo di rado, grazie all’iniziativa di pochissimi cineasti, dimostrato di avere i giusti attributi per trasformare il suddetto tema, o altri che vi si avvicinano come nel caso dell’eutanasia per Bella addormentata, nel baricentro di un film. In tal senso, significativi e puerili sono le difficoltà produttive e le reazioni delle Istituzioni statali e religiose contro le quali ha dovuto scontrarsi uno come Bellocchio prima e dopo la realizzazione della sua ultima fatica, solo per aver sfiorato il caso Englaro. Golino, al contrario, non sfiora ma affonda le mani in una storia che parla di suicidio assistito e non di eutanasia, che per chi non lo sapesse non sono affatto sinonimi, tant’è che l’attrice e regista ha dovuto ribadirlo più di una volta in occasione delle interviste e durante la conferenza stampa capitolina del 29 aprile. Dunque, l’averlo fatto è già meritevole di un plauso, a maggior ragione in un’opera prima, andando dunque controcorrente rispetto a tantissimi altri colleghi che hanno deciso di puntare sulla commedia invece che sul dramma. Uscire dai confini e imbattersi in una pellicola battente bandiera belga come Kill Me Please di Olias Barco, da sola basterebbe a far capire quanta poca apertura verso certi temi ci sia dalle nostre parti. Barco ad esempio ha firmato la regia di una pellicola che affronta la medesima tematica al centro di Miele, ma rincarando ancora di più la dose dando origine a una commedia nerissima, grottesca e scorrettissima, sintomo di un coraggio e di un’intelligenza che non calpestano mai la delicatezza e la sensibilità degli argomenti trattati e sollevati. Dimostrazione che si può parlare di un simile tema, anche in una chiave che non sia per forza di cose drammatica, ma ci vuole un’attenzione ancora più alta per non incorrere in irrimediabili conseguenze. A differenza del regista belga, Golino maneggia storia e personaggi con i guanti di velluto e con un rispetto che va allo stesso modo apprezzato. Questo probabilmente le ha consentito di portare a termine un progetto che altrimenti non avrebbe mai visto il buio di una sala, nato dalla lettura di un romanzo di Mauro Covacich dal titolo A nome tuo, al quale il film è liberamente ispirato.
Eppure il coraggio dimostrato sia dall’attrice, qui alla sua seconda esperienza dietro la macchina da presa dopo il cortometraggio Armandino e il Madre, sia dalla Buena Onda che ha scelto un film come Miele per affacciarsi per la prima volta sul terreno minato della produzione made in Italy, non ha un corrispettivo direttamente proporzionale nei valori complessivi espressi dall’opera portata sugli schermi. La scelta di non indugiare mai sulla morte, ma il fermarsi un minuto prima che questa raggiunga coloro che l’hanno voluta per mettere fine alla propria attuale condizione di sofferenza, è quanto di più rispettoso e apprezzabile un film come questo possa fare. Golino percorre questa strada e gli va riconosciuto, una strada che invece non ha voluto minimamente prendere in considerazione Ichikawa Jun , che con Dying at a Hospital ha sottoposto lo spettatore di turno a un morboso spettacolo di dolore e lacrime rivolgendo senza soluzione di continuità la macchina da presa verso i letti che ospitano alcuni malati terminali che tra una cura e l’altra si stanno lentamente spegnendo. In Miele lo sguardo sul decesso viene meno e con esso la possibilità di una spettacolarizzazione. La scrittura è partecipe e alcune scene (vedi la morte del ragazzo) ci restituisce il ventaglio di emozioni che l’avvicinarsi della dipartita di un caro può provocare, ma quando la storia si sposta sul conflitto morale, generazionale ed esistenziale tra la protagonista e l’Ingegnere Grimaldi allora quello stesso coinvolgimento, a tratti persino catartico, viene empaticamente depotenzializzato da una drammaturgia meno stratificata. Il cuore e i sentimenti lasciano spazio così alla ragione, servendo sullo schermo una netta involuzione. La scrittura rimane comunque scorrevole, ma meno ricca di sensazioni. Il duello verbale e fisico tra le parti è interessante ma non emozionante, restituendo di conseguenza alla platea uno squilibrio piuttosto evidente nel corpus integrale dell’opera tra la parte dedicata al lavoro di Irene e quella che vede la protagonista alle prese con l’apatico settantenne.
Pregevole è invece la scrittura visiva, con Golino che non calca mai la mano stilisticamente scegliendo una linea registica sobria, essenziale, epurata da orpelli, funzionale alla storia trattata, che concede anche qualcosa all’occhio. Sulla stessa linea si muove anche la recitazione degli interpreti, mai carica e appesantita, bensì improntata su un lavoro in sottrazione che consente a Carlo Cecchi e a Trinca in primis di firmare due performance riuscite.