Il dato che Another Earth, esordio nel cinema narrativo di Mike Cahill, sia stato realizzato prima (non molto e comunque a ridosso) di Melancholia di Von Trier è solo un indizio. Ma, come tale, indicativo. di un approccio alla materia narrativa e a un cinema che vuole lo sguardo selezionato di un certo pubblico, quello che lo ha acclamato al Sundance Film Festival, di cui la pellicola è perfetta emanazione.
Il pretesto è quello di una seconda Terra che viene individuata nella galassia terrestre e che si avvicina fino a sembrarne uno specchio. La storia è quella di Rhoda che, uscita di galera dopo aver ucciso accidentalmente una donna e il figlio in un incidente, si fa assumere dal vedovo per cercare di stabilire con lui un contatto. Scritto dallo stesso Cahill con la protagonista Brit Marling, un dramma che guarda ad Isaac Asimov, oltre che al regista danese, che più che inoltrarsi nei meandri visionari del suo plot si limita a sondarne i risvolti psicoanalitici.
Il pianeta speculare che si affaccia alla nostra atmosfera e che comunica con noi rimandandoci nostri suoni e parole è una chiara metafora della difficoltà infinita per l’essere umano di guardarsi, di scavare dentro di sé per espiare (nel caso di Rhoda) o per conoscersi meglio e aprirsi agli altri (in quello di John), tutta giocata sullo scontro tra gli abissi del Sé e quelli degli altri. Cahill sceglie il tipico approccio indipendente ammantandolo del tono curioso del coté fantascientifico usando tutti i trucchetti di un certo cinema d’autore che si vergogna di affrontare i generi (e non che li usa per dire altro, come Tarkovskiy o Kubrick), come scene poeticamente erotiche – la spoliazione nella neve – o giochini simbolici – lo specchio rotto, l’assegno in testato a Maid in Haven, cameriera di Haven, ma anche assonante a fatta in cielo – disturbanti per il modo in cui presuppongono l’ingenuità dello spettatore.
Ma quello che convince meno è il modo in cui, al di là del racconto, Cahill si appoggia al modello Dogma o giù di li: l’uso di orridi zoom repentini a sottolineare l’emotività, la macchina a mano che vorrebbe sporcare artificialmente il racconto pronto a ripulirsi con l’uso della musica classica nelle scene madri. Dispiace soprattutto perché oltre la banalità dello sviluppo e delle idee si vedono le potenzialità del regista, lo sguardo teso e appassionato, la capacità di raccontare come nella bella scena del cosmonauta e del rumore. E quella, fondamentale nel cinema che Cahill vorrebbe fare, di rendere vivi e credibili due personaggi scritti maluccio: e il merito va alle prove notevoli di Marling e William Mapother. Che quasi riescono a convincere lo spettatore della forza del film. Prima del finale che dovrebbe sconvolgere, e che invece lascia più che perplessi.