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L’ARRIVO DI WANG La Fantascienza Italiana dei Manetti Diventa Seria

La sorpresa più grande che regala L’Arrivo di Wang è la sua assoluta serietà. In un panorama cinematografico come quello italiano dove il “cinema di genere” (definizione di comodo ma davvero infelice) è visto o come un oggetto da ripudiare o come reperto archeologico da citare con sterili strizzate d’occhio autoironiche, il film di Marco ed Antonio Manetti stupisce per la sincerità e la naiveté con la quale i due registi sviluppano e realizzano la loro idea di partenza. Idea che definire bizzarra è dire poco.

Gaia, un’interprete di cinese, viene contattata dal misterioso Curti per un lavoro molto importante ed urgente. Bendata e condotta in un misterioso ufficio, la ragazza si trova davanti il signor Wang, un alieno spaventato, in grado di parlare esclusivamente il cinese e che viene duramente interrogato e poi torturato da Curti. E Gaia maturerà lentamente l’idea di eludere la sorveglianza e liberare il signor Wang.

Facile che un soggetto simile venisse declinato in una forma citazionistica parodica e sgangherata: i Manetti Bros. invece fanno sul serio.

Lo si capisce dal primo ingresso di Gaia nella sala dell’interrogatorio completamente buio, dove né a lei né agli spettatori è dato modo di vedere in viso il signor Wang; una scena di grande suspence, costruita con pochi ingredienti (la paura dell’oscurità) e degna del miglior Shyamalan.

O ancora nella fuga di Gaia dall’ufficio, immersa nell’ossessiva luce rossa di un allarme, riuscita rielaborazione di una delle sequenze più celebri di Alien di Ridley Scott.

Davvero encomiabili sono poi l’intelligente sorpresa finale ed il lavoro svolto dalla Palantir Digital Media, giovane società di effetti speciali che ha realizzato il signor Wang interamente in digitale.

Da profondi conoscitori del cinema popolare i Manetti Bros. ambiscono ad utilizzare il loro film come una metafora sulle intolleranze della nostra contemporaneità, divertendosi (e divertendo) a spiazzare, sorprendere, evitare buonismi e retoriche.

Anche produttivamente L’Arrivo di Wang è un film davvero apprezzabile per come riesce a concentrare l’azione in un solo luogo e con tre soli personaggi: i registi sanno fare di necessità virtù, esattamente come tanti B-movie, italiani e non.

L’Arrivo di Wang non è però privo di difetti : la sezione centrale è troppo statica e ripetitiva ed i dialoghi sono a tratti banali e scontati. Ma l’aspetto che delude maggiormente, e che pesa non poco sul giudizio finale dell’opera, è l’assenza di un vero e proprio stile.

Ciò che ha sempre contraddistinto il grande “cinema di genere” è la sua attenzione alla componente stilistica del film: i capolavori di Ford, Hitchcock, Hawks, il cinema d’azione di John Woo o Tsui Hark, gli spaghetti western o i thriller italiani hanno tutti in comune la capacità di creare forme cinematografiche, di lavorare con intelligenza e personalità lo spazio ed il tempo del cinema. Quello che, in estrema sintesi, può trasformare un semplice film in un capolavoro.

E’ questo che manca al pur lodevole film dei Manetti Bros: lo scarto in più che renda il film capace di incidere nell’immaginario dello spettatore attraverso le immagini, i suoni, i colori. I due registi italiani rimangono invece attaccati ad una macchina a spalla facilmente alla moda, a dettagli pleonastici (la macchina degli snake) ad una elementare applicazione della grammatica cinematografica.

L’Arrivo di Wang è così “soltanto” un piccolo B-movie come in Italia non se ne fanno più e assolutamente all’altezza del 90% del cinema horror o fantascientifico proveniente dagli Stati Uniti.

Se e quando Marco ed Antonio Manetti riusciranno ad elaborare una personale cifra stilistica forse ci regaleranno qualche bella sorpresa.

Ci auguriamo sinceramente che L’Arrivo di Wang sia solo il preambolo a nuove e più esaltanti avventure.

GERMANO BOLDORINI

Germano Boldorini

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