Uno spazio scenico semivuoto, equamente diviso da uno schermo bianco nella sua duplice ossimorica funzionalità di superficie riflettente (a svelare parole non dette e stati d’animo) e di “schermo” – appunto – dietro cui nascondersi. Ogni elemento di questo adattamento teatrale del testo di Maria Pia Veladiano, è simbolico e ineffabile; non vi è realismo negli oggetti di scena, né nei costumi e nel trucco della meravigliosa interprete Monica Menchi. Sono il vestito bianco (a cura di Rossana Monti) e il volto sfigurato, la metafora su cui si poggia l’intera opera: in una società basata sul confortevole piano dell’apparenza, mettere in scena la bruttezza vuol dire, di fatto, cambiare del tutto il proprio punto di vista sulla vita e ciò che essa comporta. La Bruttezza diventa Verità.
Così lo spettatore è forzato a guardare, a farsi coinvolgere dalle vicende umane della protagonista dall’infanzia sino all’età adulta, superare la barriera dell’apparenza e lasciarsi condurre attraverso un percorso di conoscenza, dove le cose non sono mai come sembrano.
La riduzione dei testi a cura di Maura Del Serra, seppur con qualche incongruenza cronologica, risulta efficace, soprattutto grazie all’interpretazione dell’ottima Menchi, la quale migliora nel ritmo man mano che si procede con l’azione. Un’interpretazione fisica, diremmo quasi violenta, che ben si sposa con un testo pregno di significato e la regia di Cristina Pezzoli, misurata e onesta.
Un collettivo tutto al femminile per un teatro che riscopre il suo ruolo primigenio: favorire il processo di catarsi dello spettatore, farsi verità.