Dopo Napoli, anche Roma affonda nell’immondizia e nell’emergenza rifiuti, con le vecchie strutture incapaci di gestire le attuali esigenze e le nuove ancora lontane dall’essere attive. E’ perciò singolare che due film presentati al Festival di Roma abbiano la discarica al centro, raccontando come l’immondizia sia diventata un elemento centrale delle nostre vite contemporanee, facendo del “terzo mondo” uno specchio non troppo deforme del “primo”. Da un lato c’è Trash, il film di Stephen Daldry tra i più applauditi in sala, che racconta di quattro ragazzini delle favelas che vivono e lavorano in una discarica e vengono coinvolti in un intrigo politico. C’è la povertà colorata, i ragazzini festosi tra rifiuti appena un po’ sporchi, qualche topo, ma nessun tipo di malattia: e soprattutto la pretesa di far partire la rivoluzione dall’immondizia. Idea a uso e consumo dello spettatore occidentale che vuole sapere senza dover conoscere davvero, e che diventa semplice alibi lasciato cadere in nome del lieto fine, della pace e del riposo in riva al mare, che le spiagge di Rio sono più importanti della sua merda.
Dall’altra invece c’è A tutto Tondo, cortometraggio diretto dall’attore Andrea Bosca che esordisce alla regia con un piccolo dramma sorridente ambientato a Tondo, il distretto più povero di Manila, la capitale filippina, cresciuto sopra e intorno a una discarica: Bosca anziché esportare la povertà cerca di importare il relativo benessere, portando i suoi attori italiani – Paola Minaccioni e Giorgio Colangeli – a contatto con la famiglia protagonista, che cerca di sopravvivere all’orrore che la circonda, con dignità, senza esotismi ma anche senza rinnegare la propria tradizione. Di immondizia e discariche si muore, ovviamente, ma si può sopravvivere: la differenza sta tra la dignità (soprattutto di sguardo) di chi ostenta toni da favola per celare mancate ambizioni politiche e chi invece vorrebbe semplicemente raccontare la vita, o un suo aspetto.