Se fossimo amanti della retorica a buon mercato diremmo una frase come “non c’è niente di più vero di una bugia”. O viceversa. Insomma una stupidaggine in cui gli ossimori lascino a bocca aperta il lettore (tipo “oggi la trasgressione è la vera normalità”). Però non lo faremo, ché nelle bocche aperte ci entrano le mosche. E poi la questione è più complessa. Dopo la definitiva consacrazione del documentario come forma d’arte cinematografica degli ultimi anni, abbiamo capito un fatto che la Mostra del Cinema di Venezia ci conferma, ossia che per arrivare alla verità occorre un raffinato processo creativo. Prendete The Look of Silence, il dolentissimo film di Joshua Oppenheimer che continua a raccontare il massacro anti-comunista in Indonesia negli anni ’60, tra i più crudeli della storia, dopo il magnifico The Act of Killing: il regista è perfettamente consapevole, come ha dichiarato lui stesso, che ogni volta che si accende una macchina da presa su qualcuno, costui comincia a recitare, anche inconsapevolmente. Allora perché fingere che la camera non esiste, perché voler far credere al pubblico che la realtà sia pura quando è sempre una messinscena?
E allora il suo modo di raccontare la realtà, di capirla – o provarci – e di comunicarla è attraverso quella performance, usando proprio il concetto di messinscena della realtà. Magari in modo meno folgorante e teorico che nel suo precedente film (da confrontare con L’image manquante di Rithy Pahn), ma sottile, strisciante, illuminante.
La luce è anche quella che vorrebbe portare Ulrich Seidl nelle cantine viennesi con Im Keller, in cui fa aprire seminterrati in cui si nascondono vizi, perversioni e follie della borghesia austriaca. Senza elaborare però, né concettualmente né con una forma che vada al di là dell’esasperato geometrismo dell’autore, un Wes Anderson grottesco e cinico; a Seidl, al suo gusto provocatore basta riprendere le persone mentre fanno “cose strane”, mentre danno sfogo alle loro perversioni anche sessuali, si mettono a nudo in modo inconcepibile per chiunque abbia un pudore. E lui si diverte alle loro spalle, porta il pubblico alla risata denigratoria, li tratta come buffi insetti a cui non concedere compassione né comprensione. Eccezion fatta per il nazista suonatore di tuba: In pratica Real Time più porno.
La realtà è il più serio dei giochi e quando la si manipola ci vorrebbe coscienza, morale e pietas per non scendere al livello dei freak ottocenteschi. Oppure per non ingannare lo spettatore: 99 Homes di Bahrani con Andrew “Spiderman” Garfield è un dramma quasi thriller che vorrebbe raccontare uno squarcio di realtà, di verità quasi in diretta, ma non esista per giusta ragioni filmiche a manipolare drammaturgia e spettatore, a piegarlo al gusto del racconto. Giusto, anzi sacrosanto. Ma allora perché darsi il belletto del documentarismo quando il solido mélo o il caro vecchio giallo sarebbero risultati più efficaci?