Identità e comunità,beni preziosi e prezzi da pagare. Il Panorama USA della 50^ Mostra del Nuovo Cinema di Pesaro ha svelato nella 4^ giornata uno dei temi fondanti la produzione sperimentale e alternativa del 3° millennio, ossia lo scavo dentro se stessi e dentro le proprie radici sociali. Lo fa con due film molto diversi tra loro: il primo è Windows di Shoja Azari, 9 cortometraggi raggruppati dal tema della finestra come schermo dal quale vedere o non vedere la violenza che accade sotto i nostri occhi, una suite cinematografica molto interessante concettualmente, che riflette tra Haneke e Kiarostami sulla violenza perpetrata allo spettatore e al cittadino dal mondo oltre gli schermi, costringendo o negando la visione, ma che non sempre è all’altezza delle ambizioni estetiche; il secondo è Suburban Trilogy, lavoro di Abigail Child in cui l’autrice prendi filmini di famiglia e riprese documentarie di tre comunità diverse, in tre epoche storiche diverse, dagli ebrei siriani ai tedeschi durante il nazismo fino all’infanzia della regista per raccontare come si cresce come donna e membro di comunità dalle regole precise, a volte ferree e feroci, distorcendo le immagini, lavorandole, ristrutturandole con effetti urticanti ma anche intelligenti.
La giornata di ieri però è stata incorniciata da un grande momento, che come un arcobaleno ha spento la tempesta violentissima abbattuta su Pesaro: una masterclass di un maestro dell’animazione come John Canemaker (vi abbiamo raccontato e fatto vedere il suo corto The moon and the Son, fra qualche giorno pubblicheremo anche una video intervista con lui) che ha raccontato la storia di Herman Schultheis, animatore della Disney che inventò gli incredibili effetti speciali animati di Biancaneve, Fantasia e Pinocchio prima di venire licenziato e sparire misteriosamente nel 1955, nella giungla del Guatemala. Una lettura illuminata dalle immagini dei film Disney e dal taccuino degli appunti ritrovato solo 20 anni fa. Un grande momento di cinema dentro e dietro il cinema.
Il concorso invece ha proposto uno dei film più deludenti dell’intera mostra, The Fall from Heaven, del turco Ferit Karahan, in cui si racconta il dramma dei kurdi in Turchia attraverso due storie minimaliste di disagio, emarginazione e violenza. La freddezza di tono e racconto non riesce però ad andare a fondo del discorso politico del regista, che non riesce a dare grinta allo stile, a scuotere lo spettatore dalla pianezza un po’ vuota del suo cinema.