Più in alto arrivi, più farai rumore cadendo. Se sei dalle parti della divinità, il boato sarà enorme. Con il quarto dramma della tetralogia dell’Anello del Nibelungo (Gotterdammerung), Wagner pensava a Odino e al Valhalla. In Brasile si pensa alla Spagna di Del Bosque. Il suo volto, di solito deciso, si è spento con i minuti come se i gol dell’Olanda prima e del Cile avessero oscurato il ricordo dell’Europeo 2008 vinto con la Russia, del mondiale 2010 tolto proprio all’Olanda e dell’Europeo 2012, sconfiggendo l’Italia con un perentorio 4-0. E’ Iniesta, solo a testa bassa in mezzo al campo, il simbolo del crepuscolo di una squadra irripetibile. Nell’anno in cui il dominio del Barcellona ha ceduto il passo. Nel giorno in cui Juan Carlos ha abdicato in nome del figlio Felipe. Chi sarà il prossimo dio spagnolo è una scoperta che è solo questione di tempo.
Creare a propria immagine è una prerogativa di dio. O dei dittatori. E anche se tecnicamente Putin non lo è, di certo ha fatto tesoro degli anni trascorsi al KGB. E per lanciarsi nel mondiale che la Russia giocherà in casa fra 4 anni ha deciso di mettere su una spedizione sportiva che sia anche un microcosmo politico, che affermi la superiorità russa. Al comando uno zar tattico, Fabio Capello, monarca assoluto, trattato da Putin come un pari, accolto a corte con tutti i privilegi del caso, quasi come un consigliere del capo, quasi come con Berlusconi alla guida del Milan; una compagine di assoluto nazionalismo, con 23 giocatori strettamente militanti in club di madre Russia; persino un giocatore di talento come Dzagoev simbolo del terrorismo ceceno, essendo sopravvissuto all’attentato che le armate ribelli effettuarono a Beslan nel 2004, nell’edificio vicino a quello frequentato dal ragazzo. Ma come ogni Specchio di tarkovskijana memoria, l’immagine si deforma. E se Dzagoev sopravvisse per miracolo all’irruzione russa che causò quasi 400 morti, al fortificato castello di Putin, o di Capello, basta il soffio delle mani del portiere Akinfeev, che lascia passare un facile tiro coreano, per tornare con i piedi per terra.
Al Mastro Pulce dei racconti di Hoffman piace raccontare favole. E quella di Lionel Messi è una favola che si trova nel punto di maggior tensione: argentino figlio di famiglia povera, ha coltivato il suo talento tra difficoltà, problemi fisici e voglia di riscatto, ha vinto tutto mentre aiutava gli altri, eppure gli è sempre mancato il guizzo per entrare davvero nell’Olimpo. 4 Palloni d’oro di fila non danno la gioia di vincere un mondiale, né tantomeno di vincerlo da condottiero, come quel Diego Armando Maradona che dribblò chiunque, anche il regolamento, per portarsi a casa il trofeo, e a cui di continuo si finisce per paragonarlo. Indossata la maglia dell’albiceleste, la Pulce si sgretola. Almeno fino al mondiale brasiliano. Messi, dopo più di un’ora incerta, prende il pallone, taglia tutta l’area in dribbling e la tocca di fino. In rete. Il ritorno della Copa a Buenos Aires, forse, è più vicino che mai.
Cahill (Australia): contro l’Olanda di Van Persie e Robben a livelli stellari, il cannoniere canguro segna una rete perfetta, tra le più belle di un mondiale ricco di capolavori tecnici. Un gol alla Vialli: potentissimo, veloce, scintillante.
Muller (Germania): si chiama come il più grande centravanti tedesco, quello che se non ci fosse stato Rivera avrebbe dato a Italia-Germania 4-3 un’altra piega: per ora piega il Portogallo con una tripletta che non fa rimpiangere il cognome portato.
Ochoa (Messico): è l’eroe del mondiale, finora. Contro il Brasile, il portiere messicano ha parato tutto ciò che poteva. E soprattutto quello che non poteva. Il Brasile avrà dimostrato meno forza del solito, ma di fronte a un muro che vola, poco può anche Neymar.