Paradossi del cinema e dei libri: più cerchi di farli combaciare più si discostano, si respingono, si annullano. Con Storia di una ladra di libri, il tentativo di Brian Percival (regista tv alla seconda prova per il cinema) di adattare il best seller di Markus Zusak (La bambina che salvava i libri) per farne un inno al racconto si traduce in un film spento che proprio nella narrazione trova il suo punto debole. Il film racconta di una bambina orfana, adottata da una coppia di poveri, che durante l’oppressione nazista si appassiona alla lettura, salvando un libro dal rogo nazista. La letteratura la accompagnerà anche quando conoscerà un ragazzo, ebreo che si rifugia a casa sua, e che le cambierà la vita.
Scritto da Michael Petroni, il film di Percival è un tipico dramma vecchio stile, pensato per l’Academy di almeno 15 anni fa o per un pubblico mid-cult, colto ma non troppo. Una fiaba moderna, raccontata fuori campo dalla Morte, Storia di una ladra di libri sarebbe la celebrazione della forza del racconto, della narrazione, della lettura e/o del cinema come carburante necessario per capire e affrontare il mondo. Ma quest co-produzione educata e perbene si porta addosso la patina spenta di un cinema impegnato e culturale ma che in realtà non ha forza né voglia di dire qualcosa di realmente forte o realmente nuovo, arrivando così al paradosso di non far sorgere alcune voglia né di leggere né di seguire il racconto: colpa di un Percival fiacco, anonimo, corretto fino alla mediocrità, che nel passaggio da un’ottima serie come Downton Abbey a questo film non ha trovato lo spirito giusto, o semplicemente non ha saputo creare la giusta atmosfere o il giusto modo di porsi tra due linguaggi differenti. E non aiuta, in un cast di facce note e non troppo convincenti, la scelta di una protagonista come Sophie Nélisse, davvero poco credibile.