Il quartiere continuò a mutare. La gente passeggiava ora tranquillamente, scavalcando i cadaveri e incrociandosi in un ordito che a stento avresti definito casuale. Alcuni si ricorrevano ai bordi della strada, in tondo, e grazie all’inquadratura di riserva Laz comprese che quel movimento dall’alto formava spirali che lentamente attiravano o respingevano il resto della massa. Una sorta di campo di forza che gioca con migliaia di universi. E gli universi sembravano fregarsene: erano tutti così vari, una eterogeneità di copione, ma ripeto tanto vari da essere assolutamente identici. Un lavoro troppo perfetto da risultare autentico, come se il costumista e il programmatore dello svolazzare dei vestiti-utensili-monili avessero esagerato in un eccesso di transfert barocco e sgualcito.
Ma questo durò niente. La varietà, il ritmo pseudo-interattivo nell’attesa, è un processo fondamentale del game design.
E parve che una precisa onda d’urto d’acciaio e fuoco avesse d’un tratto livellato tutti gli edifici, rendendoli tozzi, annerendoli tra caligine, bruno e oro, fino alla strada, in abbuiato pietrisco. La roccia sembrava aver eruttato dal nulla, iraconda, e poi essersi ghiacciata al culmine della propria rabbia, aprendosi all’intervento di uomini e simili, che avevano risposto in grande, rendendo quel rione qualcosa di unico: Laz ebbe l’impressione di incunearsi attraverso il guscio in silicio di una gigantesca e mitologica tartaruga, cullato dal suo colossale e sgranato respiro. Le costruzioni si mostravano robuste, massicce, e anche se alte al massimo due piani sembrano le punte di iceberg dormienti al di sotto, eppure pronti a reagire. L’unica cosa che interrompeva l’orizzonte era una catena di montagne in miniatura, che si ergeva a Oriente e pareva donare al posto, a seconda dell’inclinazione del sole, differenti sfumature. Ora il marrone stava virando verso il verde, un verde umido e fresco.
L’Anemos si fermò. Tastò un muro, imbrattato o dipinto, Laz non riusciva a distinguere, da disegni monolitici: rune e diversi viaggi dell’eroe si perdevano in finte profondità romaniche, di quelle tipiche delle prime chiese, quando una manciata di mattoni e un crocefisso di legno bastavano a avanzavano.
La guida si portò le dita alla bocca, e lentamente le passò al collo.