Sanremo è senza dubbio il trampolino di lancio per un musicista italiano, da qualche tempo a questa parte anche se fai musica indipendente o alternativa. The Niro, nome d’arte di Davide Combusti, ne è una prova: giunto in finale nella sezione Emergenti del Festival (sì, emergente dopo 3 dischi e il 4° in uscita), il cantautore ha fatto uscire 1969, album che s’intitola come il pezzo festivaliero (forse il migliore della sua sezione), in cui la vena del cantautore si apre a orizzonti sonori più ricchi e alla lingua italiana. Lo abbiamo intervistato mentre era in viaggio per un concerto a Conegliano
Ed è proprio dal festival che siamo partiti: “Per me è un’esperienza diversa dal solito e l’ho voluta affrontare con mente aperta, come quando ho scelto di scrivere e cantare in italiano. Dovevo mettere in mostra la mia musica e il mio mondo a un pubblico diverso dal mio, per cui non ho sentito il peso del festival, non avrebbe avuto senso fare un pezzo ad hoc, ho cercato di portare un pezzo che mi rappresentasse fino in fondo, ma allo stesso tempo, lavorando sul 4° disco, volevo anche cambiare qualcosa”.
E qualcosa in 1969 è cambiato, al di là della lingua, definita da The Niro come “una necessità venuta con il tempo, con l’esperienze in altre lingue (francese, spagnolo) e linguaggi, come le colonne sonore per il cinema”: il disco infatti impasta i suoni con più cura, più precisione, apertura internazionale nei suoni mentre il cantato diventa “locale”. Il folk, il cantautorato indie diventa più complesso, crescono musicisti e arrangiamenti ma la pomposità e la deriva di pop da consumo è annullata dalla vena poetica e interpretativa di Combusti, che sa dare agli strumenti il timbro giusto, come il falsetto della sua voce capace di infilarsi anche in chiaroscuri più suadenti.
“Le etichette non m’interessano, le idee che tiro fuori in 1969, i cambiamenti che sentivo necessari, non vengono per strategie o consensi, ma perché a me piace ‘farlo strano’. Essere cantautore significa avere rispetto assoluto della parola e delle canzoni: se riascoltandomi rispondo sì alla domanda ‘Sono io che canto?’ allora posso non sputarmi in faccia”. Un rispetto della propria coscienza e dell’ascoltatore a cui le musiche per film hanno contribuito: “La libertà dai canoni e il rispetto delle immagini mi ha aiutato anche nei miei dischi, perché ogni canzone nasce da immagini, e rispettarle, dar loro il giusto abito, è anche rispettare il pubblico”.
Aperto dal rock vagamente epico di L’evoluzione della specie, 1969 (l’anno dello sbarco sulla Luna, “l’ultimo momento di unità del genere umano, un sogno comune anche per noi che non c’eravamo e che ora non ne abbiamo”) è forse il miglior album della carriera di The Niro: la malinconia corposa della title-track, il suono tra elettrica e acustica di Ruggine, lo scattante nervosismo di Non riesco a muovermi e la chitarra classica a puntellare la chiusura di Eroe, tra gli altri, compongono la solidità di un disco che non cerca la melodia facile, ma punta a strutture e armonie che vadano in profondità parlando non solo di sentimenti, ma di rapporti tra le persone, anche in senso sociale, con l’intimo però bene in evidenza.
“Il filo rosso del disco sono i rapporti, le rotture, gli abbandoni, che ho voluto raccontare sfumando la malinconia che mi è solita con suoni più solari, aperti: ho voluto sfogare un periodo della mia vita attraverso una msuica più materna, una leggerezza più continua”. Una sfumatura che rende 1969 e il nuovo percorso di The Niro decisamente più affascinanti.