Al Teatro Vascello il tormento e l’estasi del visionario del XXI secolo
“Beato il paese che non ha bisogno di eroi” scriveva Brecht in una celebre pièce (Vita di Galileo); purtroppo di paesi così non ne esistono, così un personaggio carismatico e volitivo come Steve Jobs (San Francisco, 24 febbraio 1955 – Palo Alto, 5 ottobre 2011) non può che essere stato assunto a icona mondiale del XXI secolo, vero e proprio guru dell’innovazione, con la sua esortazione “Be Hungry, Be Foolish” ispira generazioni di giovani, ma non solo. Dice bene Mike Daisey, coraggioso drammaturgo americano, autore de “L’estasi e il tormento di Steve Jobs” in scena dal 3 al 9 Febbraio al Teatro Vascello nel brillante adattamento di Enrico Luttman, «Steve è stato bravissimo, ci ha costretto ad aver bisogno di cose che non sospettavamo nemmeno di volere»; Ipod, Iphone, Ipad, gadget dal design accattivante e dal costo poco plausibile eppur accettato di buon grado, Jobs ci ha trasformato in un esercito di geek ossessivi, veri e propri cultori di quella che potrebbe essere definita una religione: il culto della mela.
Ma come ogni storia umana che si rispetti, rivela un lato oscuro, ricordandoci – perché sì, purtroppo non vi è nulla di nuovo da raccontare – che l’assemblaggio dei nostri preziosissimi computer avviene a Shenzen, in fabbriche dove non esistono tutela né diritti degli operai, dove piccole mani di dodicenni puliscono i vetri degli iPhone con una sostanza tossica che li condannerà a un invalidante tremore. Queste son fabbriche dove, in nome del profitto, 430.000 operai formano una sorta di “ingranaggio umano” e dove il problema dei suicidi dei lavoratori si è affrontato installando reti sotto i capannoni.
Tematica scottante dunque per un atto unico magistralmente tenuto da Fulvio Falzarano con i contributi video di Cristina Redini. Qualche imperfezione tecnica – audio altalenante e certa asincronia tra palco e regia – mina un po’ una drammaturgia sociale che invece mutua dal genere Michael Moore (del resto gli americani li lavano così i loro panni sporchi) ritmo e autoironia.
L’opera di Daisey è incisiva, non c’è che dire, ma denuncia e non condanna. Sembra esortare ad una maggior consapevolezza, eppure tiene ben conto di quanto sia effettivamente inutile nonché dannoso sparare a zero sulla celebre mela, ancor più ora che il suo ideatore e maggior esponente è deceduto. Se non fosse la Apple, ce ne sarebbe un’altra di multinazionale a scrivere le sorti della Shenzen di turno, di fatto è già così, basti ricordare le campagne per boicottare Nestlé, Philip Morris, ecc… Allora che fare? In un mondo ideale ognuno di noi non comprerebbe più prodotti Apple o di qualsiasi altro brand parimenti ingiusto, i governi di questi paesi agirebbero per regolamentazioni sul lavoro più oneste e giuste fino a sovvertire completamente le leggi di mercato. Utopia? Forse sì. Ma varrebbe la pena tentare.