“Ma tu non vergognarti del viaggio. La vita, credimi, non è un fascio di speranze perdute, un puzzolente ricamo di mimose, la vita raglia e cavalca nel suo incessante splendore.”
Ammetto d’essere di parte quando recensisco i romanzi di Margaret Mazzantini, questa novella Didone, che immagino di indole forte e delicata come lo sono i suoi scritti. Vicende umane che si fanno universali, intrecciandosi col moto incessante della vita che accumula errori, rivoluzioni, vittorie e sconfitte sperando di poter dire un giorno che ne è valsa la pena.
Oggi in “Splendore” edito da Mondadori, troviamo Guido e Costantino in un percorso dall’infanzia all’età adulta che li vedrà trovarsi, dimorare l’uno nell’altro e in altre case e in altre vite, senza tuttavia mai separarsi davvero. Un romanzo di formazione che è prima di tutto un omaggio all’amore omosessuale e forse proprio per questo, è intriso di quell’ostinata manifestazione del proprio diritto a esserci da ricordare, senza esagerazione alcuna, l’intenso lirismo di amori impossibili quanto quelli di shakespeariana memoria.
Ogni aspetto di questo libro sembra un ossimoro: tanto Costantino è fragile e virile, quanto Guido è eclettico e inquieto, l’uno umile figlio di un portiere, l’altro erede di una buona quanto altera famiglia. Ecco che la Roma opulenta e cialtrona lascia spazio a una Londra intrisa di libertismo e possibilità. Sono due poli opposti che si attraggono e si respingono, ad ogni incontro/scontro si aggiunge un tassello che influenza le vite dei protagonisti e dei personaggi che gli circondano, fino a sfociare in una marea che sfonda gli argini delle convenzioni e del socialmente accettabile. Così come il suo romanzo, la Mazzantini – madre coraggio della letteratura contemporanea – si fa portavoce di un messaggio universale, affermando con forza che ognuno in fondo può essere soltanto quel che è e che il vero splendore giace proprio in questa sofferta e benedetta diversità.
Ma se il messaggio arriva forte e chiaro, non si può dire però che il percorso che lo conduce a meta sia lineare al contempo. Forse troppo coinvolta da questa storia violentemente maschile eppur femminea, la penna della Mazzantini appare a volte quasi bulimica, come se le parole e le pagine non bastassero per narrarne tutto lo splendore. Non mancano i momenti di intenso lirismo che ne fanno, ad ogni modo, una delle autrici più sensibili e prolifiche della nostra generazione; ad esempio il toccante pensiero che Guido, sola voce narrante della storia, dedica alla madre Georgette: “Attendevo il ritorno di mia madre, i suoi polpacci slanciati, i lembi del suo cappotto, la voce dell’unica donna che aveva il diritto di abitare quella casa e occupava l’interezza del mio cuore. E se anche ero arrabbiato, il bisogno di lei, la sola idea di rivederla mi faceva sciogliere di lacrime, dei più teneri e sconfortanti pensieri d’amore”.
Consigliato? Assolutamente sì. Per trovare il coraggio d’essere autenticamente se stessi ogni giorno e per ricordarsi che ogni incontro è per sempre.