Terza vocazione
I merli trattenevano pigramente qualche filo di chiaro, annoiati da quel bilico a spiovente che avrebbero dovuto sorbirsi in eterno. Le ombre crescenti non riuscivano a nascondere la sporcizia del terrazzo, stuccato dall’organico riflusso di degradati rapaci e dall’inorganico ludibrio d’incapaci annullati; lei sospirò in maniera esperta, chiuse gli occhi maledicendo l’etica in media ed in mediana, e si avvicinò alla sezione di parapetto che l’inserviente, un lobotomizzato come ogni funzionario legittimo, le ripuliva dietro altruistico compenso.
L’aria non era fredda, tuttavia si muoveva sempre a quell’altitudine e aiutava lo spettacolo a compiersi…c’era un gran movimento appena sotto la torre, un anello di figure ne attorniava un pugno, ora diviso ora uniforme, e gli incitamenti riuscivano a raggiungerla, ovattati dai metri infarciti dalla spazzatura dei sogni. Più che l’evento, a lei bastava vederli così…piccoli, ed insignificanti…formiche sacrificabili con un semplice gesto, od un gioco di palpebra…quella era la casa giusta per il suo ego, e ci avrebbe abitato se solo avesse potuto nascondersi, o pagare abbastanza il guardiano…lì era tutto limpido…la misura delle cose, le proporzioni tra i concetti, i valori delle persone…il viso spuntava fiero dalle colline di decrepiti mattoni, e sconfinava oltre la città fino alle pianure che solo a quell’altezza desiderava vedere, e assaporare…le sarebbe piaciuto vivere qualche secolo addietro, quando i signori facevano a gara nel costruire il bastione più alto per diffondere il proprio prestigio…almeno, si sarebbe sentita più integrata, più attaccata a ideali che adesso prosperavano in paesi esotici e frustati, più inserita nel perfetto cosmo di allora, rispetto al caritatevole inferno del qui che distribuiva la gravità concorde…prese nota per il carico del giorno successivo, e dedicò qualche minuto alla propria cosa, centellinando l’ebbrezza della sua sventante onnipotenza fino a risuonare interamente dell’icona nata primogenita: una pellicola fiamminga, un susseguirsi di quadri, connessi al movimento dei colori, e non delle linee…una stasigramma le apparve, una ragazza annusa una foglia blu, poi il movimento d’un centesimo ulteriore, lo scatto, e una nuova fotografia, come se il mentre fosse incoscientemente rielaborato, pur non esistendo…poi un ragazzo appena sceso da una carrozza di ferro, il terreno che va a prendere il sole restio a scendere…intervalli, intervalli, intervalli…doveva lavorare ancora per uno, al massimo due ritorni, e avrebbe potuto dare la vita a quell’embrione scalciante nell’embrione d’adulta che era per tutti, amanti e sconosciuti, laici e credenti. E lo avrebbe difeso, come un gigante. Meglio, come una madre.
Dice che tutto reagisce
ascoltalo e urina su tuo padre
dice che tutto finisce
seguilo, e offendi tua madre
dice occhi chiusi quando sogni
ubbidisci, e sarai un ateo frate
dice che tu un vento agogni
taci, e invecchia d’antrace
tra i tuoi miti annacquati,
questa spensieratezza,
gli aliti registrati,
e la tua vile fierezza
di cui la verde età
non è attenuante
in un mondo d’equità,
e luce straziante,
in un mondo riverso
e di giustizia anelante
in un sogno emerso
senza una pallida scena
senza un caldo passato
senza ventura cancrena
od un flebile amato
Ti fotteremo,
ti stiamo già fottendo
perché va tutto bene
quanto ti piace
quando guizza,
vigoroso Aiace,
nella discarica infis…
Si tappò le orecchie a quel canto, tragicamente ritmato, che osava spingersi fin lassù. La doppiezza e l’attenuante rimanevano il massimo repertorio sfoggiabile; lei lo aveva imparato, ripetuto, ma non riusciva ad abituarsi, a usarlo seriamente nel dipinto del proprio mondo…forse era per questo che se ne stava sola e sanguinante in una squallida torre arroccata, nell’oblio fagocitante del vespro…forse era per questo che, cocciuta, fissava con disprezzo e voglia una bestia ancestrale e sublime, sorreggendone lo sguardo…forse era per questo che, impenetrabile, scandagliava immobile il mosaico del reale, come un gioco non ancora perso…come un regno, ripudiato e mai tradito, che le spetta di diritto…come una scommessa in cui, sul tavolo, non c’è l’anima, ma qualcosa di più.