Un uomo e i suoi due figli vagano ai margini della moderna Taipei. Di giorno il padre racimola una misera paga come uomo sandwich per appartamenti di lusso, mentre i due bambini sopravvivono con campioni gratuiti di cibo in giro per i supermercati e i centri commerciali. Ogni sera la famiglia trova riparo in un edificio abbandonato. Nel giorno del suo compleanno una donna si unisce alla famiglia. Scritto dallo stesso regista Tsai Ming-liang, Stray Dogs è un cupissimo, quasi apocalittico (come sempre per il regista taiwanese) dramma della povertà che oltre a mettere in scena la disperata lotta per la dignità anche in condizioni estreme, è anche una forte riflessione sul mezzo cinematografico.
Tsai sembra voler lavorare, proprio come ha fatto in alcuni video e corti, sulla durata dell’inquadratura, sul suo rapporto con lo spettatore, ma anche sul montaggio e le relazioni tra immagini, chiedendosi cosa può accadere a un’inquadratura apparentemente statica, in cui però accade molto, a saper e volere guardare con il giusto tempo. Un cinema che può essere odiato, e sarebbe comprensibile, ma a cui non si può negare una fortissima idea di cinema e una potenza figurativa che non lasciano indifferenti, come l’ultima immagine, la contemplazione rassegnata di un dipinto che sostituisce il mare come il cinema sostituisce la realtà, diventando l’addio al cinema convenzionale dell’autore. E infatti, viste le reazioni del pubblico (inaspettate) e della critica, si parla già di un premio pesante.