James Franco dietro la macchina da presa convince a metà con il suo Child of God tratto dall’omonimo romanzo di Cormac McCarthy.
Solitudine, pietà, pazzia e isolamento, per il Lester Ballard di Scott Haze, che dipinge la parabola di un giovane emarginato privato degli affetti, della stabilità e equilibrio psico-fisico, che percorrerà un tragico percorso di involuzione umana, sprofondando verso il limite dell’abiezione concessa ad un essere umano.
La mano registica di Franco, dimostra una maturità assente nei precedenti lavori, un rigore privo di quell’acerbo autocompiacimento estetico a cui ci aveva abituato.
Nonostante le premesse non è un opera pienamente riuscita, sebbene la vicenda di Lester, sia così cruda da non poter risultare indifferente, il film fatica a decollare, un ritmo troppo compassato dona una pesantezza ridondante soprattutto nella prima metà del film.
L’ostracismo civile di cui Lester Ballard risulta una faccia della medaglia quantomeno inconsueta e indagata con apprezzabile schiettezza in tutti i suoi gradini, figurati e non. James Franco scenograficamente divide in tappe precise questa “catastrofe”, questo viaggio dal capanno della tenuta fino ai terrosi cunicoli sotterranei delle scene finali.
Sublime prova attoriale del giovane Scott Haze, che si muove con disinvoltura nel dramma di Ballard. Attraverso la sua capacità mimica, dipinge una fiera abbandonata a se stessa che dimentica la propria umanità, raggiungendo e superando la violenza delle belve.