Dici Artù e pensi al più celebre dei cavalieri della Tavola rotonda. Invece Artù è il nome d’arte di Alessio Dari, cantautore che arriva all’esordio, grazie a Leave Music, e con un album omonimo cerca di porsi nell’interstizio non troppo frequentato tra canzone d’autore e pop, tra il gioco colto, a tratti compiaciuto della lingua e della parola e la musica orecchiabile, pensata per le radio e per l’estate.
E proprio il gioco, tra infantilismo e malizia, è alla base di Artù, un disco che prende suoni e idee sonore, produzione e arrangiamenti del pop commerciale, a tratti simpatico e piacevole, a volte invece un filo più becero, per importarvi dentro la filastrocca adulta che per toni vocali e scelte poetiche guarda al grande Rino Gaetano. Peccato che il gioco gli prenda la mano e lo spessore che dovrebbero rendere il gioco qualcosa di più si perde nel tentativo di occhieggiare alla classifica e agli spot tv.
Aperto da Nel vestito rosso della sera, che pare strizzare l’occhio a David Lee Roth e ai Beach Boys, Artù resta fedele ai suoni sintetici e ai ritmi accattivanti – accentuati dall’ottima produzione – cercando il tormentone più il tormento: Mimì sciacqua i denti col gin è folk di sapore caraibico e mediterraneo, Giulio insomma – primo singolo – accenna a intenti rock ‘n’ roll, mentre Bagnomaria pare voler mettere in fila alcuni dei luoghi comuni pop degli ultimi anni. E’ un disco che, dichiaratamente, vorrebbe dare qualche graffio attraverso la leggerezza, ma più spesso appare frivolo: tolto qualche esempio, come Il giorno in cui Irene ha perso la verginità che è forse il pezzo migliore, o La vigilia di Natale dell’impiegato postale, il resto è più un esercizio di stile su rime e melodie da lungomare, come Il pollo si fa la gallina, punto basso del disco insieme a La canzone fa così, che paiono una via di mezzo tra un ballo di gruppo e lo Zecchino d’oro.
Discorso a parte per Giulia domani si sposa, scritta e interpretata con Mannarino, che infatti pare venire da un altro universo. Dispiace per Artù, che dimostra uno spirito che andrebbe approfondito meglio e una verve lirica che meriterebbe più impegno e contesti migliori. Ma preso così, al netto dell’esordio, Artù è un disco che stenta, arranca fino a farsi scambiare per pop di gusto discutibile. Se per una rima, tra l’altro spesso prevedibile, si abdica al gusto della scrittura, c’è di sicuro qualcosa da rivedere.