Il dramma della musica indipendente e alternativa degli ultimi 10 anni è la ricerca ossessiva della next big thing, ossia del prossimo fenomeno da lanciare. Novità più o meno inventive che non hanno il tempo di maturare e restano sempre al livello di promesse dimenticate. E’ quanto potrebbe accadere a The Strokes, giunti al 5° album con Comedown Machine, che oltre a sentire il peso della maturità che incombe devono affrontare anche il successo dei due dischi precedenti (First Impressions of Earth e Angles) e cercano di superare le difficoltà con il cambiamento. Dote che nel mondo della discografia contemporanea è un’arma a doppio taglio.
Comedown Machine infatti, senza rinnegare il solco del rock chitarristico, matematico e ritmico dei dischi precedenti (che avevano sfornato capolavori come Reptilia) cerca espressamente la via della dance, del pop che guarda agli anni ’80, un po’ nostalgico e un po’ parodistico, del riffing furbo e dell’orecchiabilità a suggellare percorsi musicali un po’ più complessi. Una sterzata verso altre direzioni – si odono echi di The Killers qua e là, ma la loro ricerca del mainstream pare agli antipodi – in cui The Strokes non vogliono davvero spiazzare l’ascoltatore, ma fargli aprire le orecchie sì.
Già la partenza del brano, sull’incipit di Tap Out mette in chiaro le cose: vogliamo divertirci/vi e non c’interessa se chiamiamo in causa Lionel Ritchie o la Whitney Houston di I Wanna Dance with Somebody giusto per farvi spaventare. Il disco, con questo biglietto da visita, gioca proprio sull’interstizio – che all’orecchio pare un abisso – tra il rock indipendente e il pop commerciale di di 30 anni fa: All the Time, primo singolo, gioca sul sicuro, ma One Way Trigger che sarà il secondo estratto pare una versione beffarda di Take on Me applicata all’armonia tipica della band. 80’s Comedown Machine (titolo emblematico) punta sulle zone d’ombra, unico brano del lotto a farlo, mentre a Chances è affidato il ruolo di ballad con il cantato di Casablancas volubile come non mai. E se Happy Ending (brano migliore) chiude il cerchio col brano d’apertura – e col passato della band riletto in chiave synth – Call It Fate, Call It Karma ammalia l’ascoltatore e occhieggia alla copertina dell’album ricalcando suoni blues e crooner antichi, come un Tom Waits dalla voce pulita.
Comedown Machine non è una rivoluzione e non è una sorpresa. E’ piuttosto uno scherzo di The Strokes, un disco che si avvicina al grande rock da stadio e allo stesso tempo si configura come la sua nemesi: produzione magnifica di Gus Oberg, arrangiamenti spesso discutibili ma altrettanto spesso sapienti, duetti ancora una volta trascinanti tra Valensi e Hammond jr. Ma anche la sensazione di essere presi in giro. Un disco da non prendere sul serio, lasciando al gruppo ciò che sa far meglio: far muovere la testa e far battere i piedi. Poco? Forse, ma può bastare.