Nel 1810, le truppe napoleoniche vogliono conquistare Lisbona per toglierla agli inglesi, i quali col comandante Wellington hanno creato delle linee fortificate prima della capitale. Linhas de Wellington, progetto di Raoul Ruiz diretto dalla moglie Valeria Sarmiento e scritto da Carlos Saboga, racconta le storie dei personaggi popolari o nobili, portoghese o dal resto d’Europa che in quella guerra si affrontarono e conobbero, e lo fa allestendo una sorta di bozzetti e piccoli quadri che messi insieme danno l’idea dell’affresco.
Sarmiento lascia la guerra sullo sfondo e descrive le parabole degli esseri umani che per un motivo o per l’altro si trovano devastati dalla guerra: nella sceneggiatura s’intrecciano melodramma, commedia maliziosa, riflessioni politiche, tragedia e ironia che s’incasellano con la moltitudine di personaggi che popolano il film. Che sorprende proprio per il suo paradosso di fondo: come il pittore nel film con Wellington, la regista fa uscire l’umanità da piccoli quadri, cattura il senso della storia col distacco epico (in senso brechtiano), racconta l’assoluto rapporto dell’uomo con la morte attraverso l’attaccamento a cibo e sesso. E nonostante, alla stregua di Noi credevamo, questa sia la versione cinematografica di una miniserie tv di 3 ore, come il film di Martone è tutt’altro che televisivo: lo si capisce dall’uso elegante ed espressivo della macchina da presa, dalla concezione “frontale” della messinscena, dai personaggi che non sono mai semplici linee narrative. Una delle nascoste sorprese dell’ultima Mostra del Cinema di Venezia.