Dopo le donne europee che praticano turismo sessuale (Paradise: Love), stavolta il regista Ulrich Seidl guarda all’integralismo religioso: protagonista Anna Maria, una donna che cerca di convertire al cristianesimo gli stranieri che le abitano vicino, e che vede tornare dopo due anni il marito, invalido e soprattutto fervente musulmano. Scritto da Seidl con Veronika Franz, Paradise: Faith è un dramma grottesco, e quindi sempre al limite del ridicolo volontario, che mette in scena i rapporti umani attraverso lo specchio deformato della fede.
Il motivo per cui il film resta difficile da sopportare, oltre che da digerire, è perché dalla macchina a mano che si fonde con inquadrature gelide e geometriche, dalla messa in mostra dei corpi sfatti, Seidl cava poco o nulla, se non delle provocazioni esacerbate e quindi sterili: più che capire, vuole deridere, si eleva al di sopra del mondo con sguardo sprezzante e obbliga gli spettatori a rifiutarlo, tirando le baruffe tra coniugi troppo per le lunghe, esibendo un cattivo gusto totale (c’è persino una semi-masturbazione con crocifisso) che diventa prevedibile quando cerca lo shock a tutti i costi. Sicuramente il regista è perfettamente conscio e consapevole della natura della sua opera, ma questo lo rende solo ancora più cinico e, appunto, sterile.