Parte da questa settimana su Four Magazine una rubrica quindicinale che si occuperà dei film che non vengono distribuiti in sala ma che passano direttamente in home video, sulle piattaforme digitali in streaming e VOD oppure che è possibile vedere solo nei festival e nelle rassegne collegate.
Il film con cui si è deciso di inaugurare questa rubrica è Kinatay, 6° film del regista filippino Brillante Mendoza che con questo film vinse il premio per la miglior regia al festival di Cannes 2009 e che si può trovare distribuito da Atlantide Entertainment in VOD (video on demand) sul sito Indieframe. Il perché di questa scelta è nella decisione di valorizzare un nuovo modo di visione e distribuzione cinematografica che, già avviata in parte del mondo, comincia a muovere i primi passi in Italia solo da qualche tempo, segnalando in questo caso un film premiato al più importante festival del mondo, diretto da una delle grandi rivelazioni del cinema asiatico. E proprio sul cinema asiatico, Kinatay (Massacro in filippino) rende possibile qualche riflessione.
Il film racconta di Peping, un poliziotto appena sposatosi e già padre, che per arrotondare si fa coinvolgere da una gang nell’eliminazione fisica di una donna che ha truffato il boss. Cuore di questa storia scritta da Armando Lao – ma il concetto di sceneggiatura in un film di Mendoza è sempre labile – è nel dilemma che afferra Peping nel momento in cui comprende che la sua impresa è oltre la legge e oltre qualunque senso del disgusto: non tanto e non solo se affrontare l’impresa di fare a pezzi una donna – e già questo pone più di un problema sul piano socio-morale -, ma soprattutto se guardare e quanto guardare.
La domanda che pare porsi Mendoza, il quale dà per assodato il gorgo maligno in cui il protagonista si getta coscientemente, è rivolta allo spettatore più che all’uomo: fin dove siamo disposti a guardare? A che punto dell’orrore ci copriamo gli occhi e dopo quanto apriamo le dita per continuare a vedere? E più che porre direttamente il pubblico di fronte a questioni simili, cosa che farebbe un comune torture-porn, le filtra attraverso lo sguardo di Peping (il cui nome ha un suono simile a peeping, guardone in inglese, e parte di quel Peeping Tom che fu il titolo originale del saggio definitivo sul voyeurismo, L’occhio che uccide di Powell): il quale è complice anche se non fa niente, perché guarda, è morboso e seppure lo vediamo scendere nell’abisso non lo vediamo fare un gesto, come chiudere gli occhi, di ribellione.
E anche lo stile di Mendoza all’inizio sembra voler spiare i propri interpreti come un residuo neorealistico, ma proprio per la consapevolezza che ha il regista dell’importanza dello sguardo nella messinscena della violenza (opposta in vari modi a quella di Haneke, per dirne uno), costruisce tutta la seconda parte come fosse un lungo piano-sequenza, rallentando la velocità della sua macchina a mano, facendo risucchiare dal buio della fotografia di Odyssey Flores, dando corpo anche con i suoni di Teresa Barrozo a una parabola infernale (proprio perchè piena di immagini e nomi santi, come d’abitudine nelle Filippine) che è anche un problema teorico: “Vuoi vedere un porno dal vivo?” dice uno dei personaggi, dimostrando che alcune tra le forme più radicali del cinema d’autore mondiale dimorano in estremo oriente.
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