Sembra un film di Ken Loach, a sentirne le frasi: “Il credito è il consumo, e il consumo è il sistema. E non si tocca”. Oppure “L’Europa è il mercato”. Invece Tutti i nostri desideri, il nuovo film di Philippe Lioret dopo l’acclamato Welcome riesce ad andare più in là della sua matrice politica, senza rinnegarla, ma facendone un punto di partenza e affiancandola a una storia di affetto e amicizia tratteggiata come poche volte capita al cinema contemporaneo.
Protagonista è Claire, magistrato che si trova di fronte al caso della madre di un compagno del figlio, la quale è finita travolta dai debiti con una finanziaria truffaldina. A districarsi nel fitto sottobosco legale il collega Stéphane, esperto di sentenze contro lo strozzinaggio legalizzato. A complicare le cose, ma a cementare un rapporto, arriva imprevista una grave malattia che colpisce la donna. Ispirata al romanzo Vite che non sono la mia di Carrère, la sceneggiatura di Lioret ed Emmanuel Courcol, prende un topos della narrazione hollywoodiana, ossia la metafora sfruttata della malattia per raccontare altro (in questo caso, la nuova povertà e i suoi sciacalli), e farlo in questo caso in modo del tutto inconsueto.
Infatti, la decisione di non lottare contro il cancro, che segna e scandisce il film proprio come un sentiero da percorrere, fa da contraltare alla descrizione del sistema giuridico che regola i meccanismi economici francesi ed europei, andando a scavare nei cavilli e nelle loro conseguenze come farebbe un legal thriller, ma facendo emergere quasi esclusivamente il lato intimo delle questioni: proprio come nel film precedente, Lioret pare voler sondare il costo umano delle norme, delle leggi, osservando i suoi Davide non come eroi della guerra contro Golia, ma vittime di una guerra in cui già combattere è grasso che cola. E lo fa senza rinnegare mai l’emotività, facendo affiorare con calibro il suo cote popolare mescolandolo con l’impegno politico e il gusto della narrazione.
Che trova il suo compimento nella descrizione del rapporto delicato, sempre in bilico tra ciò che potrebbe e ciò che non dovrebbe essere, dei due protagonisti, nel modo sentimentale e mai patetico che segue il percorso di Claire e la dissolvenza incrociata con la fragile Céline: l’occhio di Lioret, lo sguardo attento, partecipe eppure lucido si posa più che altrove sui visi, gli occhi, i gesti inespressi dei suoi attori. Vincent Lindon è quasi un’icona operaia, loachiana appunto come potrebbe esserlo Peter Mullan, un Bruce Springsteen del cinema francese, e la grazia di Marie Gillain, la sensualità sommessa e luminosa di chi vuole vivere per qualcosa e non contro, anche fosse contro la malattia, basta a rendere toccante, angelico senza pietismi un finale che più che un pianto è un sussurro di speranza. Che per Lioret fa rima con dolore, anche quando non esiste.